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Quale scuola per i nostri bambini?
Educare nel suo significato profondo rimanda alla maieutica di Socrate: tirar fuori, far nascere.
Il progetto educativo insito nei programmi della scuola dovrebbe essere quello di “tirar fuori” il meglio del bambino e del ragazzo.
Ma troppo spesso la scuola invece di formare e di permettere lo sviluppo delle potenzialità insite in ogni bimbo, in- forma e cioè tenta di mettere l’allievo in una forma prestabilita (da chi? e per cosa?).

Dovremmo chiederci: qual è l’essenza di un bambino? Cos’è un fanciullo? Quali obiettivi dovrebbe avere la scuola essenzialmente? La programmazione ministeriale, che in effetti recita come punto fondamentale lo sviluppo delle potenzialità e dell’individualità del bambino nel rispetto dei suoi tempi personali e che per questo dispone le libertà di insegnamento, in effetti va nel senso opposto. Infatti la valutazione delle potenzialità dell’infante non dovrebbe camminare di pari passo con gli studi psicologici e pedagogici sul bambino? Non dovrebbe forse rispettare la sua crescita? Non dovrebbe avere come obbiettivo il “tirar fuori, mettere in nascita” piuttosto che riempire, inserire in una forma?
Ormai l’apprendimento dei bambini viene continuamente valutato come si valuta la loro crescita fisica. Non li si guarda, non li si conosce, si sta attenti solamente che rientrino in criteri fissi. Anche la lettura ormai è a tempo!
Così da anni con i DSA... Già in tenera età i test INVALSI valutano l’apprendimento a partire da canoni prestabiliti e in modo asettico. Il test viene poi valutato da persone che non conoscono il bambino e non lo incontrano. Mentre, invece, ogni insegnante dovrebbe considerare qual è la propria capacità come docente, di “far nascere”, di portare a compimento i talenti dei propri allievi, piuttosto che valutare la loro performance.
Ogni docente dovrebbe sapere che il bambino impara tanto quanto lui sa insegnare, da “in-signare”, cioè lasciare il segno: ecco, l’insegnante dovrebbe valutare la sua capacità di “lasciare un segno”.
“Gli errori mi fanno sempre male” - mi disse un bambino - “Per questo ho tanta paura e non riesco a fare il compito quando sono a scuola”, “Quando scade il tempo vado in panico” - mi ha confidato un’altra bimba. Questo proprio perché vengono valutati dagli errori piuttosto che sceverare lo sviluppo delle loro potenzialità, che è un affare del docente. Mi sorrise quando risposi “È il tuo insegnante che non ha ancora trovato il modo giusto per insegnare a te”, oppure “Il tempo è il tuo, ciò che conta è arrivare”.
Eseguire un compito non dovrebbe avere le caratteristiche di una gara podistica! Si è ormai dimenticato che l’apprendimento cammina di pari passo con le emozioni e che tanto dipende dall’autostima percepita dal fanciullo, dal rispecchiamento dell’ambiente in cui il bambino o il ragazzo vivono. Si dimentica, altresì, che esistono vari tipi di intelligenza e che l’intelligenza appartiene anche all’interazione con chi insegna e non è una fotografia, che resta fissa e immobile. Così assistiamo impotenti alla messa in forma di bambini a cui, ormai, solo i cellulari insegnano l’interazione e la socializzazione.
La scuola dovrebbe essere una "missione civile", dice Silvestri, segretario nazionale vicario della FISI. E continua: “Formare i giovani non significa applicare schemi astratti calati dall’alto, magari dopo aver frequentato corsi di perfezionamento per diventare docenti esperti”. Sono convinta che formare i giovani sia un ‘esperienza di crescita condivisa tra chi fa nascere e chi nasce, si nasce insieme e si cresce insieme. E condivido ancora con Silvestri il fatto che educare sia “un’esperienza integrale in cui insieme ai contenuti si trasmettono idee e valori: un modo di stare al mondo basato sul senso critico e sull’onestà intellettuale”. Educarli infine, non significa chiedere ai piccoli di adattarsi al mondo, ma insegnare loro a cambiare gli aspetti del mondo che non li rispettano. La missione è quella di dar loro gli strumenti per pensare e non dire loro cosa pensare. La missione è quella di avere consapevolezza dei propri diritti e non solo dei doveri. Ho tre figli e mi ha colpito molto il patto con la scuola e l’allievo, stampato sul diario del terzo figlio alle medie: recitava solo ciò che il ragazzo deve o non deve fare, nessuna voce sui diritti dei fanciulli, né sui doveri dei docenti. Il compito della scuola non è quello di “raddrizzare” come molti sostengono, anche tra i genitori, ma coltivare e favorire la crescita delle piantine storte, come voglio loro, che cerchino curiosamente in modo personale ed individuale la loro luce. Il compito del docente dovrebbe essere accendere e non spegnere, sostenere gli entusiasmi e non placarli, favorire le esperienze personali e non imporle. Ho letto da qualche parte, forse su “Il cervello infinito” (Norman Doidge, 2014) che le basi neurologiche della matematica si sviluppano attraverso le corse nei campi: ebbene, penso che tenere fermi i ragazzi, adattarli, etichettarli sia sicuramente ciò che di peggio la scuola possa fare, non favorendo così la crescita cerebrale.
Antonia Gaeta,
Comitato nazionale psicologi per l'etica, la deontologia e le scienze umane