C’è Codice e Codice – I° parte
21/08/2023
DAL METACODICE AL CODICE REVISIONATO.
24/09/2023C’è Codice e Codice – II° parte
La questione del consenso informato
È di grande rilievo in questi giorni il dibattito sulla proposta di modifica del Codice Deontologico degli Psicologi. In vista del Referendum del 21-25 settembre, vogliamo aprire una riflessione con quante più Colleghe e Colleghi, perché riteniamo che l’impatto di tali modifiche, qualora approvate, sarà estremamente peggiorativo per l’agire professionale dello Psicologo. Il Comitato Nazionale Psicologi per l’Etica la Deontologia e le Scienze Umane, a seguito di un accurato confronto tra le due versioni del Codice (vecchia e nuova versione) ha ritenuto opportuno presentare ai Colleghi le modifiche più rilevanti della versione sottoposta a Referendum.
QUI potete leggere un articolo introduttivo che sintetizza tali aspetti.
In questo articolo affrontiamo più in dettaglio un elemento di grande rilevanza nella pratica professionale, ovvero il cosiddetto consenso informato.
La questione del consenso informato
Esaminando il nuovo Codice ciò che balza subito all’occhio riguarda la questione relativa al cosiddetto consenso informato.
Si tratta di un elemento cardine della relazione fra lo psicologo e l’utenza, perché regola gli aspetti di trasparenza dell’informazione, di rispetto, di riservatezza, di autonomia, di responsabilità e di libertà sia dello psicologo, sia di chi si rivolge a lui, in qualsiasi tipo di rapporto siano impegnati e non solo nella relazione terapeutica.
Questi principi fondanti sono regolati soprattutto dall’articolo 4 del Codice Deontologico e dagli artt. 24 e 31 per quanto riguarda la questione del consenso informato (non è forse un caso che proprio questi articoli siano quelli che nella nuova versione hanno subito i cambiamenti più estesi e radicali).
Altre conferme alla nuova linea normativa provengono dalle modifiche dell’articolo 9 (consenso informato nella ricerca), nel quale, a seguito delle modifiche stesse, dalla frase “lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in essa coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato” è scomparsa, non si sa perché, la parola “informato”.
La formulazione dell’art. 4 della vecchia versione del Codice enfatizza l’obbligo non negoziabile dello psicologo di rispettare chi si avvale delle sue prestazioni senza imposizioni o discriminazioni riguardanti il suo sistema di valori o il suo status sociale, razziale, economico eccetera, con un chiaro riferimento all’articolo 3 della nostra Costituzione.
Nella nuova formulazione questo chiarissimo enunciato viene sostituito con la generica prescrizione di “riconoscere le differenze individuali, di genere e culturali, promuovendo inclusività” (senza peraltro definire cosa si intenda per “inclusività”). Inoltre il nuovo articolato inserisce una delega molto significativa proprio all’obbligo di raccolta del consenso informato per i trattamenti sanitari mentre lo esclude tout court per gli interventi non sanitari.
Un’analisi più dettagliata delle modifiche chiarirà meglio queste affermazioni.
La vera rivoluzione concettuale e fattuale in tema di autodeterminazione la si può vedere nella nuova versione degli articoli 24 e 31, che trattano il consenso informato rispettivamente degli “adulti capaci” e dei soggetti di minore età oppure “incapaci” a prestare autonomamente il consenso. Questi articoli, che nel vecchio Codice riguardavano qualsiasi tipo di prestazione professionale, ora regolano esclusivamente i cosiddetti “trattamenti sanitari” erogati dallo psicologo/psicoterapeuta (?), cosa che impatta fortemente sulla pratica professionale, considerando che la maggior parte delle prestazioni psicologiche non sono di tipo sanitario.
L’art. 24, che definisce il consenso informato su persone adulte capaci, è stato riformulato in maniera da ricalcare in toto il modello medico, dovendo lo psicologo informare il cliente “sulle finalità e sulle modalità del trattamento sanitario, sull’eventuale diagnosi e prognosi, sui benefici e sugli eventuali rischi, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario”: Aspetti appropriati alla somministrazione di un farmaco o
di altro trattamento strettamente medico ma affatto pertinenti rispetto ad interventi come la psicoterapia, la psicologia clinica o la psicoanalisi. Si tratta di una formulazione da “liberatoria”, più in linea con un protocollo da medicina difensiva, che con l’enunciazione di un principio di diritto; non c’è da stupirsi dato che questa frase, come anche quella conclusiva di questo articolo, è stata pedissequamente copiata dalla legge 22 dicembre 2017 n. 219, in materia di consenso informato ai trattamenti MEDICI.
Il nodo fondamentale è che il nuovo Codice non definisce in modo univoco cosa si debba intendere con il termine di “trattamento sanitario” (e cosa invece no), lasciandolo alla libera interpretazione dello psicologo e potendo così generare confusione.
All’art. 31, che tratta la questione del consenso informato sui minori o su persone interdette, si nota intanto come la parola “interdetto” venga sostituita con il termine più blando di “incapace”. Non fornendo il nuovo articolo parametri precisi in merito
a cosa si debba intendere per “incapace” il medesimo potrebbe creare una categoria iper-inclusiva di “incapaci” non aventi diritto all’espressione del consenso di cui sopra. Sembra che questa riformulazione sia un adeguamento ai tempi, laddove i casi di interdizione sono sempre meno, mentre si fa ampio uso e abuso dell’amministratore di sostegno, figura non sempre professionalizzata e utilizzata anche su persone per qualche aspetto fragili, disabili o semplicemente non allineate ai comuni standard e stili di vita.
Altri due aspetti critici nella nuova formulazione cambiano drasticamente gli equilibri relativi alle responsabilità e scelte nell’esercizio del consenso informato.
- Sebbene si riconfermi che all’avvio del “trattamento sanitario” il consenso informato di genitori o tutori sia necessario, nella nuova formulazione si enfatizza il principio di tenere in considerazione la volontà della persona (minorenne o incapace ad esprimere il consenso).
- È previsto di rimettere la decisione all’autorità giudiziaria, nei casi di assenza
in tutto o in parte, del consenso informato al trattamento sanitario che lo psicologo ritiene necessario.
Vorremmo puntualizzare come il minore non sia, di fatto, in grado di esprimere un consenso a un trattamento sanitario, neppure dopo i 14 anni di età, poiché il medesimo trattamento potrebbe implicare conseguenze che non possono essere comprese appieno o adeguatamente valutate dal minore, il quale non può essere dunque, in nessun caso, sottratto alla tutela dell’adulto genitore o tutore, che opera le scelte sanitarie del figlio nel suo interesse (Art. 316 c.c. sostituito dal D. Lgs. n.154/2013; Legge 54/2006; Legge 219/2017). Ciò è vero a maggior ragione per bambini sotto i 12-14 anni e in età scolare.
Anche rispetto al principio di tenere conto della volontà del minore, l’articolato ricalca le indicazioni della suddetta legge 219 (art. 3.2 e 3.5): ecco perché questi concetti sono tagliati su misura per i classici trattamenti sanitari di natura medica. Tuttavia, quando si vuole applicarli all’area psicologica si creano delle profonde incongruenze. Infatti, a nostro parere, in presenza di eventuale rifiuto del soggetto, il trattamento psicologico, proprio per la sua peculiarità, non può essere imposto contro la volontà, neppure su un individuo di minore età oppure sulla persona considerata incapace ad esprimere il consenso.
- La remissione al giudice
Il nuovo art. 31 enuncia che in caso di assenza (in tutto o in parte) del consenso informato dei genitori o tutori, qualora lo psicologo ritenga necessario il trattamento sanitario, “la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria”.
Le motivazioni addotte per tale modifica fanno riferimento al fatto che, in passato, questo articolo avrebbe dato origine a uno spropositato numero di contenziosi legali di cui lo psicologo sarebbe stato gravato; questa variazione permetterebbe di sollevare questo peso dalle spalle e dalla responsabilità degli psicologi. Viene affermato dai promotori del nuovo Codice come questa formulazione sarebbe a tutela dello psicologo, sollevandolo da eventuali responsabilità.Ci appare sin troppo evidente come il nuovo Codice vada nella direzione di comprimere la libertà di scelta, attraverso l’esercizio di un controllo coercitivo e impositivo, dal quale come professionisti ci dissociamo completamente.
L’articolo 31, nella sua formulazione originaria, conteneva già in sé stesso la tutela del minore o del soggetto interdetto (o inabilitato) necessitante di un intervento psicologico di sostegno o di cura, garantito anche in assenza del consenso del genitore o tutore. Ciò nell’assoluta riservatezza del medesimo e informando
l’Autorità Tutoria, vincolando lo psicologo alla completezza delle informazioni e all’effettiva necessità dell’intervento, sotto la sua responsabilità. Riteniamo che invece l’articolo nella sua nuova formulazione possa prestarsi a possibili e
differenti abusi, conferendo allo psicologo il potere di imporre un trattamento
sui figli minori, fuori dal consenso genitoriale libero e sotto la velata minaccia di ricorrere all’autorità giudiziaria, la quale potrebbe a sua volta porre in essere provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale.Tutto questo non è accettabile.
La decisione rispetto ad un trattamento psicologico sui figli non è di competenza dell’autorità giudiziaria bensì dei genitori (o tutori) mentre è evidente che il ricorso a tale autorità si tradurrebbe in una imposizione esterna, fuori dai canoni previsti dalla legge.
Il Comitato Nazionale Psicologi ribadisce come sia nella sostanza fondamentale tutelare il diritto dei figli a crescere all’interno delle proprie famiglie di origine, mentre sino ad oggi hanno avuto luogo, e continuano, sospensioni sin troppo facili della responsabilità genitoriale da parte dei Tribunali italiani, con gravissime ripercussioni per i minori.
Prendiamo atto di come il valore sopra richiamato non venga tradotto nel nuovo Codice, poiché nel caso specifico, le scelte circa la salute psicologica dei figli vengono delegate e demandate all’autorità giudiziaria, con conseguente possibile effetto paradosso di una proliferazione, invece che di una riduzione, di inutili procedimenti giudiziari oltre che di possibili provvedimenti che limitano o negano la responsabilità genitoriale.
- La questione del diritto alla libera scelta
Tornando all’art. 24 notiamo nella nuova formulazione un passaggio che riteniamo particolarmente critico e che non risulta minimamente attinente all’ambito psicologico.
Il suddetto articolo, che ribadiamo affronta la questione del consenso informato
su persone adulte capaci, infatti, inserisce un’eccezione all’obbligo di raccolta del consenso informato, il quale non è più necessario per i trattamenti sanitari
“nei casi espressamente previsti dalla legge”.Anche qui l’appiattimento sul modello medico appare evidente e non comprendiamo quali sarebbero gli interventi psicologici che potrebbero eventualmente venire imposti su disposizioni di legge, atteso che non è possibile imporre alcun intervento psicologico contro la volontà della persona (Artt. 2, 10 e 32 Costituzione; Legge 219/2017; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea 2000; Cassazione n.17903/23; n.1822/19; n.13506/15; Codice Deontologico Psicologi in particolare artt. 4, 18 e 24)
così come non può essere imposta la salute mentale, in maniera coattiva, con trattamenti sanitari obbligatori di tipo psichiatrico, i quali rappresentano l’eccezione residuale, visto che si riferiscono a pazienti psichiatrici con malattia mentale solitamente grave e che pertanto necessitano di degenza ospedaliera (Legge 180/78).Quali sarebbero dunque questi casi “previsti dalla legge” rispetto agli interventi psicologici? Stiamo qui parlando, lo ricordiamo, del Codice deontologico degli Psicologi, non dei Medici e neppure dei Medici Psichiatri. Notiamo qui una psichiatrizzazione della psicologia, la quale farebbe presumere l’esistenza, come
per i trattamenti medici e psichiatrici, anche di trattamenti psicologici, clinici e psicoterapeutici, i quali potrebbero venire imposti su disposizione di legge.
Ci domandiamo se la psicoterapia (ridefinita come trattamento sanitario) potrebbe a questo punto essere imposta su disposizioni di legge (al pari di un TSO) e dunque fuori dal consenso libero della persona!Riteniamo tale impostazione estremamente riduttiva, inutile ma soprattutto gravemente lesiva della libertà di scelta e del diritto all’autodeterminazione dell’individuo. Si ha l’impressione che sia stato implementato un codice lesivo proprio di tale valore, attinente alla libertà di scelta e al consenso informato, che la persona adulta capace deve poter esprimere rispetto a qualunque trattamento sanitario, con la possibilità di esprimere un rifiuto senza subire alcuna ripercussione o discriminazione.
Questa tesi riceve purtroppo conferma indiretta anche dalla variazione dell’art. 22 del Codice Deontologico, che data la brevità citiamo integralmente nella versione originale: ”Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi”. In mezzo a queste due frasi è stata inserita la seguente affermazione: “e nelle attività sanitarie si attengono alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali”, che ne vanifica e ne ribalta il principio fondamentale di autodeterminazione e scelta terapeutica.
La disanima di questa pericolosissima tendenza di trasformare le linee guida in direttive sanitarie obbligatorie richiederebbe bel altro spazio di quello possibile in questa sede. Tuttavia occorre rimarcare come il concetto di linea guida sia quello di orientamento e non possa conciliarsi con un termine come “attenersi” che è chiaramente coercitivo. Si aprono qui scenari ormai tristemente familiari, in cui il sanitario (in questo caso lo psicologo) è deresponsabilizzato ma al sicuro finché si attiene ai protocolli istituzionali, mentre se vuole mantenere la sua discrezionalità e agire, in scienza e coscienza, nell’interesse del paziente, si espone a rischi legali o all’accusa di violazione deontologica.Sempre nel nuovo articolo 24 si prescrive, tra l’altro, di indicare all’utente le “conseguenze” del rifiuto al trattamento sanitario.
Nel caso della normativa analoga riferita a trattamenti medici, il senso è informare il paziente delle conseguenze di salute nel rifiutare terapie mediche consigliate. Ma nel traslare queste formulazioni a un “trattamento sanitario” di tipo psicologico, ci domandiamo a questo punto come verranno intese tali conseguenze, se siano di tipo psicologico, sanitario o giudiziario.
Ricordiamo infine che, proprio per aver circoscritto l’oggetto dell’art. 31 ai soli “trattamenti sanitari” psicologici (peraltro non meglio identificati), le altre prestazioni professionali subiscono una de-regolamentazione, come meglio dettagliato nella prima parte di questo articolo. Questo potrebbe significare, ad esempio, che interventi in ambito scolastico o all’interno di altre istituzioni non sanitarie non richiederebbero più di acquisire il consenso informato, con ulteriore depotenziamento della responsabilità genitoriale o tutoriale.
Molte domande attendono risposta
- Perché lo psicologo non è più vincolato alla raccolta del “consenso informato” alle prestazioni psicologiche non sanitarie? Visto che ciò potrebbe implicare verosimilmente una riduzione della possibilità di esercitare una scelta libera oltre che il diritto ad un’informativa chiara e completa, de-regolando di fatto le attività professionali non sanitarie poste in essere dallo psicologo non psicoterapeuta.
- Perché nel nuovo codice all’art. 24 viene esplicitamente inserita un’eccezione all’obbligo di raccolta del consenso informato di adulti capaci, rispetto ai
“trattamenti sanitari”? Visto che tale passaggio non può risultare minimamente attinente a nessun trattamento psicologico o psicoterapeutico, che in nessun caso potrebbe essere imposto fuori dal consenso libero e volontario. - Perché nel nuovo codice all’art.31 quando genitori o tutori ritirano legittimamente il consenso oppure non lo forniscono, rispetto al trattamento sanitario ritenuto “necessario” dallo psicologo, la decisione è rimessa all’Autorità Giudiziaria? Visto che solitamente genitori e tutori possono rivolgersi allo psicologo in maniera libera e autonoma, fuori da qualunque procedimento giudiziario.
- Con quale modalità e su mandato di chi tale decisione inerente i figli “è rimessa all’Autorità Giudiziaria”? Visto che i genitori hanno il diritto di adire l’autorità giudiziaria ma non potrebbe certo essere lo psicologo ad interpellarla su mandato personale e al fine di far eseguire una qualche terapia psicologica.
La questione del consenso informato
È di grande rilievo in questi giorni il dibattito sulla proposta di modifica del Codice Deontologico degli Psicologi. In vista del Referendum del 21-25 settembre, vogliamo aprire una riflessione con quante più Colleghe e Colleghi, perché riteniamo che l’impatto di tali modifiche, qualora approvate, sarà estremamente peggiorativo per l’agire professionale dello Psicologo. Il Comitato Nazionale Psicologi per l’Etica la Deontologia e le Scienze Umane, a seguito di un accurato confronto tra le due versioni del Codice (vecchia e nuova versione) ha ritenuto opportuno presentare ai Colleghi le modifiche più rilevanti della versione sottoposta a Referendum.
QUI potete leggere un articolo introduttivo che sintetizza tali aspetti.
In questo articolo affrontiamo più in dettaglio un elemento di grande rilevanza nella pratica professionale, ovvero il cosiddetto consenso informato.
La questione del consenso informato
Esaminando il nuovo Codice ciò che balza subito all’occhio riguarda la questione relativa al cosiddetto consenso informato.
Si tratta di un elemento cardine della relazione fra lo psicologo e l’utenza, perché regola gli aspetti di trasparenza dell’informazione, di rispetto, di riservatezza, di autonomia, di responsabilità e di libertà sia dello psicologo, sia di chi si rivolge a lui, in qualsiasi tipo di rapporto siano impegnati e non solo nella relazione terapeutica.
Questi principi fondanti sono regolati soprattutto dall’articolo 4 del Codice Deontologico e dagli artt. 24 e 31 per quanto riguarda la questione del consenso informato (non è forse un caso che proprio questi articoli siano quelli che nella nuova versione hanno subito i cambiamenti più estesi e radicali).
Altre conferme alla nuova linea normativa provengono dalle modifiche dell’articolo 9 (consenso informato nella ricerca), nel quale, a seguito delle modifiche stesse, dalla frase “lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in essa coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato” è scomparsa, non si sa perché, la parola “informato”.
La formulazione dell’art. 4 della vecchia versione del Codice enfatizza l’obbligo non negoziabile dello psicologo di rispettare chi si avvale delle sue prestazioni senza imposizioni o discriminazioni riguardanti il suo sistema di valori o il suo status sociale, razziale, economico eccetera, con un chiaro riferimento all’articolo 3 della nostra Costituzione.
Nella nuova formulazione questo chiarissimo enunciato viene sostituito con la generica prescrizione di “riconoscere le differenze individuali, di genere e culturali, promuovendo inclusività” (senza peraltro definire cosa si intenda per “inclusività”). Inoltre il nuovo articolato inserisce una delega molto significativa proprio all’obbligo di raccolta del consenso informato per i trattamenti sanitari mentre lo esclude tout court per gli interventi non sanitari.
Un’analisi più dettagliata delle modifiche chiarirà meglio queste affermazioni.
La vera rivoluzione concettuale e fattuale in tema di autodeterminazione la si può vedere nella nuova versione degli articoli 24 e 31, che trattano il consenso informato rispettivamente degli “adulti capaci” e dei soggetti di minore età oppure “incapaci” a prestare autonomamente il consenso. Questi articoli, che nel vecchio Codice riguardavano qualsiasi tipo di prestazione professionale, ora regolano esclusivamente i cosiddetti “trattamenti sanitari” erogati dallo psicologo/psicoterapeuta (?), cosa che impatta fortemente sulla pratica professionale, considerando che la maggior parte delle prestazioni psicologiche non sono di tipo sanitario.
L’art. 24, che definisce il consenso informato su persone adulte capaci, è stato riformulato in maniera da ricalcare in toto il modello medico, dovendo lo psicologo informare il cliente “sulle finalità e sulle modalità del trattamento sanitario, sull’eventuale diagnosi e prognosi, sui benefici e sugli eventuali rischi, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario”: Aspetti appropriati alla somministrazione di un farmaco o
di altro trattamento strettamente medico ma affatto pertinenti rispetto ad interventi come la psicoterapia, la psicologia clinica o la psicoanalisi. Si tratta di una formulazione da “liberatoria”, più in linea con un protocollo da medicina difensiva, che con l’enunciazione di un principio di diritto; non c’è da stupirsi dato che questa frase, come anche quella conclusiva di questo articolo, è stata pedissequamente copiata dalla legge 22 dicembre 2017 n. 219, in materia di consenso informato ai trattamenti MEDICI.
Il nodo fondamentale è che il nuovo Codice non definisce in modo univoco cosa si debba intendere con il termine di “trattamento sanitario” (e cosa invece no), lasciandolo alla libera interpretazione dello psicologo e potendo così generare confusione.
All’art. 31, che tratta la questione del consenso informato sui minori o su persone interdette, si nota intanto come la parola “interdetto” venga sostituita con il termine più blando di “incapace”. Non fornendo il nuovo articolo parametri precisi in merito
a cosa si debba intendere per “incapace” il medesimo potrebbe creare una categoria iper-inclusiva di “incapaci” non aventi diritto all’espressione del consenso di cui sopra. Sembra che questa riformulazione sia un adeguamento ai tempi, laddove i casi di interdizione sono sempre meno, mentre si fa ampio uso e abuso dell’amministratore di sostegno, figura non sempre professionalizzata e utilizzata anche su persone per qualche aspetto fragili, disabili o semplicemente non allineate ai comuni standard e stili di vita.
Altri due aspetti critici nella nuova formulazione cambiano drasticamente gli equilibri relativi alle responsabilità e scelte nell’esercizio del consenso informato.
- Sebbene si riconfermi che all’avvio del “trattamento sanitario” il consenso informato di genitori o tutori sia necessario, nella nuova formulazione si enfatizza il principio di tenere in considerazione la volontà della persona (minorenne o incapace ad esprimere il consenso).
- È previsto di rimettere la decisione all’autorità giudiziaria, nei casi di assenza
in tutto o in parte, del consenso informato al trattamento sanitario che lo psicologo ritiene necessario.
Vorremmo puntualizzare come il minore non sia, di fatto, in grado di esprimere un consenso a un trattamento sanitario, neppure dopo i 14 anni di età, poiché il medesimo trattamento potrebbe implicare conseguenze che non possono essere comprese appieno o adeguatamente valutate dal minore, il quale non può essere dunque, in nessun caso, sottratto alla tutela dell’adulto genitore o tutore, che opera le scelte sanitarie del figlio nel suo interesse (Art. 316 c.c. sostituito dal D. Lgs. n.154/2013; Legge 54/2006; Legge 219/2017). Ciò è vero a maggior ragione per bambini sotto i 12-14 anni e in età scolare.
Anche rispetto al principio di tenere conto della volontà del minore, l’articolato ricalca le indicazioni della suddetta legge 219 (art. 3.2 e 3.5): ecco perché questi concetti sono tagliati su misura per i classici trattamenti sanitari di natura medica. Tuttavia, quando si vuole applicarli all’area psicologica si creano delle profonde incongruenze. Infatti, a nostro parere, in presenza di eventuale rifiuto del soggetto, il trattamento psicologico, proprio per la sua peculiarità, non può essere imposto contro la volontà, neppure su un individuo di minore età oppure sulla persona considerata incapace ad esprimere il consenso.
- La remissione al giudice
Il nuovo art. 31 enuncia che in caso di assenza (in tutto o in parte) del consenso informato dei genitori o tutori, qualora lo psicologo ritenga necessario il trattamento sanitario, “la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria”.
Le motivazioni addotte per tale modifica fanno riferimento al fatto che, in passato, questo articolo avrebbe dato origine a uno spropositato numero di contenziosi legali di cui lo psicologo sarebbe stato gravato; questa variazione permetterebbe di sollevare questo peso dalle spalle e dalla responsabilità degli psicologi. Viene affermato dai promotori del nuovo Codice come questa formulazione sarebbe a tutela dello psicologo, sollevandolo da eventuali responsabilità.Ci appare sin troppo evidente come il nuovo Codice vada nella direzione di comprimere la libertà di scelta, attraverso l’esercizio di un controllo coercitivo e impositivo, dal quale come professionisti ci dissociamo completamente.
L’articolo 31, nella sua formulazione originaria, conteneva già in sé stesso la tutela del minore o del soggetto interdetto (o inabilitato) necessitante di un intervento psicologico di sostegno o di cura, garantito anche in assenza del consenso del genitore o tutore. Ciò nell’assoluta riservatezza del medesimo e informando
l’Autorità Tutoria, vincolando lo psicologo alla completezza delle informazioni e all’effettiva necessità dell’intervento, sotto la sua responsabilità. Riteniamo che invece l’articolo nella sua nuova formulazione possa prestarsi a possibili e
differenti abusi, conferendo allo psicologo il potere di imporre un trattamento
sui figli minori, fuori dal consenso genitoriale libero e sotto la velata minaccia di ricorrere all’autorità giudiziaria, la quale potrebbe a sua volta porre in essere provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale.Tutto questo non è accettabile.
La decisione rispetto ad un trattamento psicologico sui figli non è di competenza dell’autorità giudiziaria bensì dei genitori (o tutori) mentre è evidente che il ricorso a tale autorità si tradurrebbe in una imposizione esterna, fuori dai canoni previsti dalla legge.
Il Comitato Nazionale Psicologi ribadisce come sia nella sostanza fondamentale tutelare il diritto dei figli a crescere all’interno delle proprie famiglie di origine, mentre sino ad oggi hanno avuto luogo, e continuano, sospensioni sin troppo facili della responsabilità genitoriale da parte dei Tribunali italiani, con gravissime ripercussioni per i minori.
Prendiamo atto di come il valore sopra richiamato non venga tradotto nel nuovo Codice, poiché nel caso specifico, le scelte circa la salute psicologica dei figli vengono delegate e demandate all’autorità giudiziaria, con conseguente possibile effetto paradosso di una proliferazione, invece che di una riduzione, di inutili procedimenti giudiziari oltre che di possibili provvedimenti che limitano o negano la responsabilità genitoriale.
- La questione del diritto alla libera scelta
Tornando all’art. 24 notiamo nella nuova formulazione un passaggio che riteniamo particolarmente critico e che non risulta minimamente attinente all’ambito psicologico.
Il suddetto articolo, che ribadiamo affronta la questione del consenso informato
su persone adulte capaci, infatti, inserisce un’eccezione all’obbligo di raccolta del consenso informato, il quale non è più necessario per i trattamenti sanitari
“nei casi espressamente previsti dalla legge”.Anche qui l’appiattimento sul modello medico appare evidente e non comprendiamo quali sarebbero gli interventi psicologici che potrebbero eventualmente venire imposti su disposizioni di legge, atteso che non è possibile imporre alcun intervento psicologico contro la volontà della persona (Artt. 2, 10 e 32 Costituzione; Legge 219/2017; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea 2000; Cassazione n.17903/23; n.1822/19; n.13506/15; Codice Deontologico Psicologi in particolare artt. 4, 18 e 24)
così come non può essere imposta la salute mentale, in maniera coattiva, con trattamenti sanitari obbligatori di tipo psichiatrico, i quali rappresentano l’eccezione residuale, visto che si riferiscono a pazienti psichiatrici con malattia mentale solitamente grave e che pertanto necessitano di degenza ospedaliera (Legge 180/78).Quali sarebbero dunque questi casi “previsti dalla legge” rispetto agli interventi psicologici? Stiamo qui parlando, lo ricordiamo, del Codice deontologico degli Psicologi, non dei Medici e neppure dei Medici Psichiatri. Notiamo qui una psichiatrizzazione della psicologia, la quale farebbe presumere l’esistenza, come
per i trattamenti medici e psichiatrici, anche di trattamenti psicologici, clinici e psicoterapeutici, i quali potrebbero venire imposti su disposizione di legge.
Ci domandiamo se la psicoterapia (ridefinita come trattamento sanitario) potrebbe a questo punto essere imposta su disposizioni di legge (al pari di un TSO) e dunque fuori dal consenso libero della persona!Riteniamo tale impostazione estremamente riduttiva, inutile ma soprattutto gravemente lesiva della libertà di scelta e del diritto all’autodeterminazione dell’individuo. Si ha l’impressione che sia stato implementato un codice lesivo proprio di tale valore, attinente alla libertà di scelta e al consenso informato, che la persona adulta capace deve poter esprimere rispetto a qualunque trattamento sanitario, con la possibilità di esprimere un rifiuto senza subire alcuna ripercussione o discriminazione.
Questa tesi riceve purtroppo conferma indiretta anche dalla variazione dell’art. 22 del Codice Deontologico, che data la brevità citiamo integralmente nella versione originale: ”Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi”. In mezzo a queste due frasi è stata inserita la seguente affermazione: “e nelle attività sanitarie si attengono alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali”, che ne vanifica e ne ribalta il principio fondamentale di autodeterminazione e scelta terapeutica.
La disanima di questa pericolosissima tendenza di trasformare le linee guida in direttive sanitarie obbligatorie richiederebbe bel altro spazio di quello possibile in questa sede. Tuttavia occorre rimarcare come il concetto di linea guida sia quello di orientamento e non possa conciliarsi con un termine come “attenersi” che è chiaramente coercitivo. Si aprono qui scenari ormai tristemente familiari, in cui il sanitario (in questo caso lo psicologo) è deresponsabilizzato ma al sicuro finché si attiene ai protocolli istituzionali, mentre se vuole mantenere la sua discrezionalità e agire, in scienza e coscienza, nell’interesse del paziente, si espone a rischi legali o all’accusa di violazione deontologica.Sempre nel nuovo articolo 24 si prescrive, tra l’altro, di indicare all’utente le “conseguenze” del rifiuto al trattamento sanitario.
Nel caso della normativa analoga riferita a trattamenti medici, il senso è informare il paziente delle conseguenze di salute nel rifiutare terapie mediche consigliate. Ma nel traslare queste formulazioni a un “trattamento sanitario” di tipo psicologico, ci domandiamo a questo punto come verranno intese tali conseguenze, se siano di tipo psicologico, sanitario o giudiziario.
Ricordiamo infine che, proprio per aver circoscritto l’oggetto dell’art. 31 ai soli “trattamenti sanitari” psicologici (peraltro non meglio identificati), le altre prestazioni professionali subiscono una de-regolamentazione, come meglio dettagliato nella prima parte di questo articolo. Questo potrebbe significare, ad esempio, che interventi in ambito scolastico o all’interno di altre istituzioni non sanitarie non richiederebbero più di acquisire il consenso informato, con ulteriore depotenziamento della responsabilità genitoriale o tutoriale.
Molte domande attendono risposta
- Perché lo psicologo non è più vincolato alla raccolta del “consenso informato” alle prestazioni psicologiche non sanitarie? Visto che ciò potrebbe implicare verosimilmente una riduzione della possibilità di esercitare una scelta libera oltre che il diritto ad un’informativa chiara e completa, de-regolando di fatto le attività professionali non sanitarie poste in essere dallo psicologo non psicoterapeuta.
- Perché nel nuovo codice all’art. 24 viene esplicitamente inserita un’eccezione all’obbligo di raccolta del consenso informato di adulti capaci, rispetto ai
“trattamenti sanitari”? Visto che tale passaggio non può risultare minimamente attinente a nessun trattamento psicologico o psicoterapeutico, che in nessun caso potrebbe essere imposto fuori dal consenso libero e volontario. - Perché nel nuovo codice all’art.31 quando genitori o tutori ritirano legittimamente il consenso oppure non lo forniscono, rispetto al trattamento sanitario ritenuto “necessario” dallo psicologo, la decisione è rimessa all’Autorità Giudiziaria? Visto che solitamente genitori e tutori possono rivolgersi allo psicologo in maniera libera e autonoma, fuori da qualunque procedimento giudiziario.
- Con quale modalità e su mandato di chi tale decisione inerente i figli “è rimessa all’Autorità Giudiziaria”? Visto che i genitori hanno il diritto di adire l’autorità giudiziaria ma non potrebbe certo essere lo psicologo ad interpellarla su mandato personale e al fine di far eseguire una qualche terapia psicologica.
Perché questa proposta di nuovo Codice Deontologico va respinta
- Perché assimila il vasto panorama delle scienze psicologiche ad un trattamento sanitario
- Perché inserisce anche per i trattamenti psicologici e psicoterapeutici una deroga al consenso informato, salvo definire quali siano le “terapie” passibili di essere imposte “su disposizioni di legge”
- Perché lede la libertà di scelta individuale dell’utente riducendo il suo diritto all’autodeterminazione
- Perché esclude dalla regolamentazione le prestazioni professionali di tipo non-sanitario, di fatto esentando dal dovere di acquisire consenso informato rispetto ad ampia parte dell’attività professionale dello psicologo.
Cari colleghi, vi invitiamo a riflettere su tutti questi aspetti e a leggere il primo articolo introduttivo su questo tema, che offre una panoramica sulle modifiche e in particolare la questione della premessa etica, un preambolo legato al Codice ma non incluso in esso, escamotage teso a renderlo esente dall'obbligo di ratifica referendaria.
Il dibattito è aperto!
7 luglio 2023
Comitato Nazionale Psicologi per l’Etica, la Deontologia e le Scienze Umane