Luisa Benedetti,
Comitato nazionale psicologi per l'etica, la deontologia e le scienze umane
Impedire alle persone di accompagnare i propri cari morenti, o mettere qualcuno nella condizione di morire solo e magari spaventato, può essere considerato un atto di pura malvagità per molte ragioni.
La morte è un momento di importante cambiamento di stato nella vita di chiunque ed ha grande rilevanza il modo in cui avviene.
Spesso il morente avverte l’imminenza del passaggio e ha bisogno di comunicare quello che in precedenza, forse anche solo per pudore, non ha detto: può avere necessità di sciogliere dei sospesi o di precisare le proprie volontà o, più semplicemente, l’inevitabilità del passaggio può rendergli desiderabile la lieve carezza di una mano che lo aiuti ad effettuare dolcemente il distacco dalla realtà vissuta fino ad allora.
Inoltre, anche se a noi può sembrare che l’atto della morte sia istantaneo, si tratta di un processo che coinvolge sia l’aspetto fisico che quello energetico/spirituale dell’individuo e di solito, a parte i casi di morte violenta, inizia ben prima del momento in cui avviene il decesso e si protrae oltre. Lo stato d’animo del morente, come pure la presenza o l’assenza di dolore fisico, possono determinare il grado di serenità con cui avviene il passaggio e persistono per un certo tempo anche dopo avvenuto. La morte non cancella l’individuo, ne consegna la parte fisica al processo di decomposizione, mentre la sua Essenza, l’aspetto permanente o comunque lo si voglia chiamare, con il suo patrimonio di emozioni, non scompare istantaneamente, ma vive un processo di elaborazione dell’esperienza appena conclusa. Nel corso di tale processo costituisce una “presenza” che permea i luoghi noti ed è possibile che, senza che ve ne sia la volontà, le sue sensazioni residue vengano avvertite dai suoi cari, anche attraverso la connessione creata proprio dal lutto.
I parenti del morente, i suoi amici e le persone che lo hanno caro, dal canto loro hanno bisogno di un tempo e di un contatto per abituarsi all’idea della dipartita, a volte di “vedere”, per accettare l’idea della separazione “definitiva”. Hanno bisogno di sapere che stanno facendo il meglio per lui, attraverso la cura certamente, ma anche standogli vicini nei modi possibili in base alla situazione. A volte hanno bisogno di dirgli quello che non hanno mai avuto il tempo o il coraggio di dire, piccole o grandi cose che siano.
Una volta trapassato, il provvedere alla preparazione del corpo nei suoi diversi passaggi e la celebrazione del rito funebre secondo la propria tradizione, sanciscono una nuova fase di distacco, nella quale ritrovare memorie, dignità e accettazione. Si creano così i presupposti per procedere nell’elaborazione del lutto.
Chi ha impedito che tutto questo avvenisse, ha la grande responsabilità di aver violato lo spazio del passaggio fra la vita e la morte profanando volontariamente un campo di intimità sacra e di aver cercato di rendere la morte niente altro che una questione meccanica, soggetta esclusivamente alle leggi degli uomini.
Noi tutti, d’altra parte, nonostante il dolore, il senso di impotenza e la rabbia che possiamo provare, abbiamo la responsabilità di chiedere giustizia, non come atto di vendetta, ma per affermare la dignità che si è tentato di sottrarre e la dimensione affettiva e spirituale che accompagnano l’evento morte. Abbiamo anche la responsabilità di applicare le nostre conoscenze e la qualità dei nostri cuori per trasformare questo disegno disumano, trovando pace dentro di noi e diffondendola fuori, fino a raggiungere anche coloro che non sono più tra noi fisicamente, ma la cui presenza e richiesta sono chiaramente percepibili.
Luisa Benedetti,
Comitato nazionale psicologi per l'etica, la deontologia e le scienze umane